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avvocato di giuliomaria

Il nuovo dpcm 26 aprile 2020 disciplina la c.d. Fase 2, introducendo, tra le altre, nuove misure in ordine agli spostamenti. Le disposizioni contenute nel decreto si applicheranno a partire dal 4 maggio, sostituendo quelle attualmente vigenti previste dal dpcm 10 aprile 2020, e saranno efficaci fino al 17 maggio.
Con questo dpcm il Governo aspira ad un ritorno progressivo alla normalità, tentativo che, tuttavia, presenta non pochi dubbi interpretativi, soprattutto in relazione agli spostamenti delle persone fisiche.
Ed invero, quanto agli spostamenti all’interno della Regione, è previsto che questi debbano essere motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute. Tra le situazioni di necessità rientrano, a partire dal 4 maggio, anche gli spostamenti finalizzati ad “incontrare congiunti”.
In assenza di una definizione da parte del legislatore dei soggetti che possano rientrare nella categoria dei congiunti, l’unico parametro interpretativo è rappresentato dai codici civile e penale, a mente dei quali in detta categoria rientrerebbero parenti, affini, unioni civili e rapporti di adozione. Pertanto, alla luce di questa chiave interpretativa dovrebbero rientrare in tale categoria:

  • i coniugi, tale per cui qualora un coniuge abiti in una città diversa, risulta possibile operare lo spostamento per fargli visita. Stessa conclusione vale per chi abbia stipulato un contratto di convivenza o abbia costituito un’unione civile;
  • i soggetti legati da un vincolo di parentela. La parentela è riconosciuta dall’ordinamento fino al sesto grado, dunque, figli, genitori, nipoti, nonni, zii, cugini, fino al rapporto intercorrente tra figli di cugini;
  • gli affini. L’affinità è il rapporto che intercorre tra i parenti di un coniuge con l’altro coniuge (suoceri, genero, nuora, cognati). Non sussiste alcun rapporto, invece, tra i parenti dei coniugi tra di loro (le due suocere, ad esempio, non potranno incontrarsi).Tale conclusione sembrerebbe non valere per i soggetti che hanno costituito un’unione civile, in quanto la legge 76/2016 (disciplina delle unioni civili) nel richiamare le norme del codice civile applicabili, non richiama la normativa sull’affinità, portando ad escludere ad esempio che il partecipe dell’unione civile possa andare a far visita ai genitori dell’altro. Tale conclusione sembrerebbe valere anche per le persone che hanno stipulato un contratto di convivenza in quanto attraverso tale contratto sono disciplinati esclusivamente rapporti patrimoniali.

A fronte di una tecnica legislativa assolutamente evanescente – cui, per la verità, l’attuale esecutivo, ci aveva già abituato con i precedenti dpcm – è sopraggiunta anche quella che potremmo definire un’“interpretazione autentica” del Presidente del Consiglio confermata dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti in due distinti interventi, in occasione dei quali si è tenuto a precisare che nella categoria dei congiunti vi rientrerebbero anche le “persone unite da stabili relazioni affettive o affetti stabili”.
Risulterà palese, anche ai non addetti lavori, l’assoluta inafferrabilità dell’inciso “stabile affetto”, inciso che viene posto dal legislatore quale presupposto del divieto che, per definizione, dovrebbe essere connotato da certezza ed essere idoneo ad indirizzare il comportamento dei destinatari di tale precetto.
Infatti, non è dato sapere quale sia il criterio o i criteri alla luce dei quali qualificare una relazione affettiva come “stabile” e, dunque, quali parametri saranno utilizzati dagli operatori deputati ai controlli per determinarsi ad elevare la sanzione amministrativa, o, peggio, per segnalare eventuali dichiarazioni (ritenute) mendaci alla Procura della Repubblica, in ragione di una relazione fittiziamente dichiarata stabile.
Da ultimo, il Viceministro Sileri ha dichiarato che possa considerarsi affetto stabile anche il rapporto di amicizia a condizione che questo possa dirsi “vero”.
Quindi, il Governo invita i consociati a riflettere sulla natura e l’intensità dei propri rapporti interpersonali al fine di escludere coloro che rientrano nella categoria dei soli conoscenti.
Si continua, quindi, a legiferare attraverso interviste pubbliche e con la tecnica dell’aggettivazione rendendo assolutamente incerto il precetto fino a svuotarlo di contenuto.
Tralasciando la questione relativa alla modifica normativa (dal concetto di “congiunti” a “stabile relazione affettiva”) operata attraverso dichiarazioni televisive, che di per sé rappresenta un abominio giuridico, l’aspetto più rilevante resta quello penale.
Ed invero, nell’autocertificazione dovrà dichiararsi, al fine di giustificare il proprio spostamento, la finalità di incontrare un soggetto cui si è legati da una stabile relazione affettiva. Qualora tale dichiarazione dovesse risultare mendace, in base a criteri non meglio precisati, si incorrerà nel reato di cui all’art. 483 c.p.
L’esecutivo ricorre a concetti liquidi, disperdendo i confini del perimetro della legalità e lasciando all’interprete la facoltà di sanzionare, in quanto mendaci, dichiarazioni di valore in ordine alla stabilità affettiva percepita dal dichiarante.
Tutto ciò premesso si ricorda, tuttavia, che le visite ai congiunti sono consentite nel rispetto di strette limitazioni. Dovrà, infatti, essere rispettato il divieto di assembramento, il distanziamento interpersonale di almeno un metro oltre l’obbligo di utilizzare protezioni per la vie respiratorie.
Gli spostamenti fuori dalla Regione rimangono, invece, vietati, sia con mezzi di trasporto pubblici che privati, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute. Quindi tali spostamenti rimangono disciplinati esattamente come dalla precedente normativa relativa alla c.d. Fase 1.
È stata nuovamente prevista la possibilità di fare rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Pertanto, coloro che si trovano “bloccati”, a causa della normativa emergenziale dei precedenti mesi, hanno facoltà di rientrare al proprio domicilio, abitazione o residenza.
Resta ancora vietato lo spostamento verso seconde case o di vacanza.
È nuovamente consentita la possibilità di accedere a parchi, ville e giardini pubblici a condizione che venga mantenuta la distanza interpersonale di un metro e che non si creino assembramenti. Le aree attrezzate per il gioco dei bambini sono chiuse e, dunque, non utilizzabili.
Con riguardo all’attività sportiva e motoria, il dpcm prevede che queste possano essere svolte individualmente (o nel caso di minori o persone non completamente autosufficienti con accompagnatore) e nel rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno due metri per l’attività sportiva e di almeno un metro per ogni altra attività. É stato eliminato il riferimento alla prossimità dalla propria abitazione dunque, tali attività, potranno svolgersi senza alcuna limitazione di spazio purché ciò avvenga individualmente e nel rispetto delle distanze.
Tuttavia, con Ordinanza n. 46 del 29 aprile 2020, il Presidente della Giunta Regionale, ha confinato l’esercizio dell’attività motoria (passeggiate all’aria aperta e bicicletta) al Comune di appartenenza. L’esercizio dell’attività dovrà essere individuale ad eccezione di genitori e figli minori, di accompagnatori di persone non completamente autosufficienti o di residenti nella stessa abitazione. Per questi ultimi non risulta necessario il mantenimento del distanziamento sociale di 1,8 metri.
Inoltre, dispone che tale attività sia svolta “con partenza e rientro alla propria abitazione”, intendendosi evidentemente con tale inciso che tale attività debba iniziare e terminare presso la propria abitazione senza la possibilità di effettuare tappe intermedie finalizzate allo svolgimento di altre attività.
L’Ordinanza non specifica alcunché in relazione all’attività sportiva, rimanendo, quindi, quest’ultima disciplinata da quanto previsto nel dpcm.
La Regione, da ultimo, anticipa il Dpcm rispetto all’entrata in vigore delle disposizioni, considerato che l’Ordinanza avrà validità a partire dal 1 maggio mentre le previsioni del dpcm soltanto dal 4 maggio.

Pisa, 30 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

avvocato di giuliomaria

ORDINANZA PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE DEL 6 APRILE 2020:

DISTRIBUZIONE E OBBLIGATORIETA’ DELLE MASCHERINE

Con ordinanza n. 26 del 06 aprile 2020, la Regione Toscana ha reso obbligatorio l’utilizzo della mascherina monouso per i tutti i soggetti di età superiore ai 6 anni, fatta eccezione per le persone che non ne tollerino l’utilizzo a causa di certificate condizioni psicofisiche. La certificazione deve essere rilasciata dal medico di medicina generale o dal pediatra in caso di minori.
L’obbligo della mascherina ricorre in tutti gli spazi chiusi pubblici e privati aperti al pubblico nel caso in cui si registri la presenza di più persone; nonché nei mezzi di trasporto pubblico locale, nei servizi non di linea taxi e noleggio con conducente.
L’utilizzo della mascherina è, altresì, obbligatorio negli spazi aperti pubblici o, comunque, aperti al pubblico quando in presenza di più persone è obbligatorio mantenere il distanziamento di un metro.
L’Ordinanza dispone, inoltre, che ciascun Comune della Regione provveda, a mezzo della Protezione Civile, alla distribuzione delle mascherine ai nuclei familiari in ragione del numero dei componenti dello stesso.
L’Ordinanza prevede un doppio criterio temporale di entrata in vigore:
a) dalla data di esaurimento dell’attività di distribuzione delle mascherine, previa pubblicazione della decorrenza sul sito istituzionale di ciascun Comune nonché tramite gli ordinari canali di comunicazione della Protezione Civile;
b) per tutti i Comuni, comunque, a decorrere dal settimo giorno dalla data di adozione dell’ordinanza stessa, ovvero il 13 aprile 2020.
L’Ordinanza in commento, a seguito dell’entrata in vigore del Dpcm 10 aprile 2020, ha validità fino al 3 maggio 2020. Infatti, nelle disposizioni finali è previsto che la stessa rimanga in vigore fino alla vigenza delle misure adottate ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.L. 19/20 ad oggi prorogate con il Dpcm suddetto.
Si fanno salve, comunque, eventuali modifiche o integrazioni dovute alla mutazione del quadro epidemiologico o ad eventuali nuove disposizioni legislative o amministrative.
La violazione dell’obbligo di utilizzo della mascherina nelle ipotesi sopra indicate, integra la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 ad euro 3000.
Resta inteso, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. e) del D.L. 19/20, il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora (con o senza mascherina) per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus, la cui violazione e’ punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie.
L’Ordinanza in commento lascia non pochi dubbi interpretativi in ordine all’obbligo di utilizzo della mascherina nei luoghi aperti pubblici solo quando “in presenza di più persone, è obbligatorio il mantenimento della distanza sociale”. Si prevede, quindi, un obbligo che scatta a fronte del realizzarsi di un’ipotesi non governabile dal
soggetto obbligato. Non è dato sapere, infatti, quale siano le ipotesi in cui si possa effettuare uno spostamento in luogo aperto pubblico o aperto al pubblico ( si pensi a titolo di esempio, ad una strada pubblica percorsa per raggiungere un dato esercizio commerciale), senza indossare la mascherina, posto che non è possibile conoscere, preventivamente, se e quanti soggetti si incontreranno lungo il percorso.
Sarebbe stata, forse, preferibile una formulazione più netta e incisiva del precetto che rendesse, in ogni caso, obbligatorio l’utilizzo della mascherina al fine di eliminare ab origine dubbi interpretativi.
A fronte di queste incertezze si consiglia di uscire di casa indossando precauzionalmente la protezione, al fine di evitare di incorrere in eventuali sanzioni a causa della diversa interpretazione che il singolo accertatore potrebbe dare della disposizione.

Pisa, 11 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

 

avvocato di giuliomaria

CONTAGIO DA COVID-19 NEI LUOGHI DI LAVORO.

OBBLIGHI E RESPONSABILITA’ PENALE DEL DATORE DI LAVORO

L’emergenza sanitaria in atto pone importanti problematiche sul piano della prevenzione dei rischi nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità dell’imprenditore.
Le aziende si trovano di fronte alla difficile gestione del rischio di contagio intraziendale da Covid-19. Tale situazione riguarda tanto le aziende oggi operative – perché attive nei settori individuati come essenziali o perché rientranti nella categoria delle c.d filiere essenziali – quanto quelle che dovranno riprendere – si spera in un futuro molto prossimo – la loro attività.
La complessità della problematica impedisce il ricorso agli strumenti classici della gestione della sicurezza sul luogo di lavoro attraverso le ordinarie figure professionali a ciò preposte.
Ed invero, il rischio di contagio da Covid-19 è stato qualificato come un rischio biologico ambientale che va a coinvolgere qualunque luogo – lavorativo e non – che implichi la concentrazione di più persone. Pertanto, si traduce in un rischio estraneo all’attività lavorativa, muovendo da fattori esterni non direttamente governabili dal datore di lavoro in quanto presente in tutti i contesti sociali.
Possiamo, quindi, trarre una prima conclusione rispetto alle premesse fatte: la natura di rischio generico esclude che il datore di lavoro debba aggiornare o integrare il Documento di valutazione dei rischi (DVR), il quale rappresenta – in base al D. Lvo. 81/2008 (TU salute e sicurezza) – lo strumento preposto alla prevenzione dei rischi endogeni, ovvero direttamente connessi alla attività lavorativa posta in essere.
L’assenza di un obbligo di integrazione, tuttavia, non esime il datore di lavoro dal tutelare la salute dei propri dipendenti e dall’attivarsi al fine di contenere il rischio da contagio.

Sul datore di lavoro, infatti, grava una posizione di garanzia in ordine a tutti i rischi – siano essi connessi all’attività lavorativa o scaturenti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo – che trova la sua fonte normativa nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La posizione di garanzia espone il datore di lavoro – nel caso in cui questi non si sia attivato o lo abbia fatto in maniera insufficiente e si sia verificato un caso di contagio intraziendale – alla possibile contestazione di reati quali le lesioni colpose o, nei casi più gravi, l’omicidio colposo.
L’imprenditore, quindi, dovrà attivarsi al fine di contenere il rischio di contagio nell’area del c.d. rischio consentito, vale a dire assicurare ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il Governo, di concerto con le associazioni di categoria, in data 14 marzo 2020, ha redatto e sottoscritto un Protocollo recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Il Protocollo rappresenta un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
La condotta attiva richiesta al datore di lavoro non è di facile realizzazione. L’adeguamento al Protocollo, infatti, investe ambiti eterogenei che andranno regolamentati bilanciando tutti i diritti e le esigenze presenti nella realtà aziendale.

Sarà, quindi, necessario predisporre le misure necessarie a prevenire il rischio di contagio da Covid-19 così da tutelare la salute dei lavoratori e scongiurare possibili contestazioni di natura penale, il tutto garantendo, comunque, la produttività, le dinamiche aziendali, i diritti dei lavoratori. Infatti, un Protocollo estremamente rigido che non tenga conto delle specificità dell’azienda, potrebbe risolversi in una sostanziale paralisi dell’attività produttiva e determinare la lesione dei diritti dei lavoratori contenuti nei contratti individuali e collettivi.
Di qui, la necessità del coinvolgimento di più professionisti specializzati in diversi settori.
L’adeguamento al Protocollo, affinché persegua tanto l’obiettivo di tutelare la salute dei lavoratori quanto quello di scongiurare il rischio di una contestazione penale, deve essere procedimentalizzato avendo in considerazione le caratteristiche della singola realtà aziendale interessata, creando modelli organizzativi ad hoc capaci di garantirne efficacia, rispetto e controllo. La necessità di tracciare gli interventi posti in essere è stata richiamata anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro che in una nota ha fatto esplicito riferimento all’importanza di “formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte”.
Un Protocollo “cucito” sulle peculiarità della singola azienda – il cui rispetto sia garantito dagli organi interni debitamente costituiti – riduce, indubbiamente, il rischio penale. Infatti, l’adozione scrupolosa di un Protocollo ad hoc rappresenta un notevole ostacolo per la costruzione di una contestazione penale, rispetto alla quale la Pubblica Accusa, oltre a dimostrare che il contagio si sia verificato in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa dovrà, altresì, provare che lo stesso abbia avuto origine da una “falla” nella procedura adottata.

L’eterogeneità e complessità delle criticità sopra richiamate escludono la possibilità di approcciarsi alla problematica con superficialità (veicolando, a titolo esemplificativo, alcune regole attraverso mere comunicazioni interne) o di avvalersi, esclusivamente delle canoniche figure di riferimento, necessitando, al contrario, la sinergia di più competenze capaci di sintetizzare in un unico documento tutti i profili di interesse.
Da ultimo, l’eccezionalità della situazione unita alla assoluta assenza di precedenti fa sì che, anche dopo la predisposizione dei modelli, l’imprenditore necessiti di un continuo confronto con i professionisti, al fine di ponderare al meglio le singole determinazioni a fronte di una infinita casistica di possibili evenienze che possono darsi nella concreta gestione della vita aziendale.

Pisa, 9 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

avvocato di giuliomaria

JOGGING: DIETROFRONT DEL VIMINALE

Con un tweet pubblicato sull’account ufficiale, il Viminale ha affermato che è consentita l’attività sportiva (jogging) e l’attività motoria (camminata) nei pressi della propria abitazione, operando un evidente dietrofront rispetto a quanto specificato nella circolare del Ministero dell’Interno del 31 marzo 2020. Pertanto, sono consentiti tanto la camminata quanto il jogging. Permane il dubbio su cosa debba intendersi con l’indicazione “nei pressi della propria abitazione”.

Pisa, 3 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

L’emergenza sanitaria in atto presenta importanti risvolti anche sul piano della prevenzione dei rischi nell’ambiente lavorativo ed, in particolare, con riguardo alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità del datore di lavoro.
II rischio di contagio da Covid-19, infatti, costituisce un rischio ambientale che riguarda l’intera popolazione ed ogni contesto sociale e, dunque, anche quello lavorativo, in quanto anche i luoghi di lavoro – posta la concentrazione di più persone nel medesimo luogo – rappresentano una delle principali occasioni di trasmissione del virus.
Vi è da chiedersi, quindi, se ed in quale misura, rispetto a questa nuova e sconosciuta pandemia, il datore di lavoro – quale soggetto che ricopre sempre una posizione di garanzia a tutela dei propri dipendenti per ogni rischio connesso all’organizzazione del lavoro ed alle mansioni in concreto affidate ai singoli lavoratori – debba implementare le azioni volte a scongiurare il contagio e la diffusione del virus all’interno della popolazione aziendale.
Il problema si pone, oggi, per le aziende che operano nei settori c.d. essenziali che continuano ad essere operative, ma riguarderà – si auspica – nel prossimo futuro, anche le realtà economiche oggi sospese che, più o meno gradualmente, riprenderanno la propria attività.
Il quesito trova risposta nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Si tratta di norma di portata generale e di chiusura del sistema prevenzionistico che, a mente della ormai consolidata giurisprudenza, impone al datore di lavoro di farsi garante dell’incolumità del lavoratore, prevedendo in capo al medesimo un generale dovere di sicurezza. Il datore di lavoro, dunque, dovrà predisporre le misure idonee a prevenire tutti i rischi connessi all’attività lavorativa anche quelli derivanti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo.
Si può, dunque, affermare che è indubbio che sul datore di lavoro gravi una posizione di garanzia anche in ordine al rischio di contagio da Covid-19.
L’eccezionalità della situazione contingente, l’elevato grado di diffusione, la probabilità di dover ricorrere a cure ospedaliere (in un numero che “intaserebbe” – o meglio – che ha già “intasato” l’intero sistema sanitario), nonché il tasso di mortalità, hanno indotto – come noto – il Governo ad imporre ai consociati determinati comportamenti e ad adottare specifiche misure di prevenzione.
Ebbene, il buon senso prima, il diritto poi, impongono che l’ambiente di lavoro non possa rappresentare una zona franca, ovvero un luogo ove il rischio di contagio sia superiore a quello socialmente accettato.
Ne consegue che se è pur vero che il rischio di contagio da Covid-19 non rientri tra quelli “controllabili” dal datore di lavoro è, altresì, vero, che questi, deve garantire ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il datore di lavoro dovrà, dunque, approntare tutte le misure e i dispositivi di sicurezza necessari a ricondurre e contenere il rischio da contagio all’interno dalla c.d categoria del “rischio consentito”.
Quindi, la posizione di garanzia in capo al datore di lavoro si rinviene nel codice civile e la categoria del rischio consentito ne delimita i confini, superati i quali null’altro può essere preteso dal datore di lavoro.
In tale contesto, si è posto l’ulteriore interrogativo se sussista o meno l’obbligo per il datore di lavoro di aggiornare il Documento di valutazione dei rischi (DVR) in seguito all’insorgenza dell’emergenza sanitaria in atto, posto che la mancata adozione/aggiornamento del documento in parola è sanzionata da fattispecie penali contravvenzionali previste dal Testo Unico 81/2008 (di seguito indicato come Testo Unico salute e sicurezza).
Ed invero, il Covid-19 è stato qualificato quale rischio di natura biologica generico. Per rischio generico si intende quel rischio non connaturato all’attività lavorativa stricto sensu intesa, ma derivante da fattori esterni non governabili dal datore di lavoro e presente in tutti i contesti sociali, lavorativi e non. A tale rischio, dunque, il lavoratore è esposto tanto nel luogo di lavoro quanto in qualsiasi altro contesto sociale che determini il contatto con altri soggetti. In questa prospettiva il luogo di lavoro rappresenta, dunque, una ulteriore occasione ove il lavoratore può contrarre il virus.
Il rischio generico va distinto da quello specifico o c.d. endogeno che, al contrario del primo, è direttamente connesso alla mansione lavorativa posta in essere, vale a dire strettamente connaturato all’attività svolta. In questo ultimo caso, l’ambiente di lavoro figura quale fattore che introduce o dilata l’area di rischio.
Tra i rischi oggetto di obbligatoria valutazione, alla luce del Testo Unico salute e sicurezza, figura anche la categoria del rischio biologico nella quale, come anticipato, vi rientra anche il Covid-19.
Si potrebbe, quindi, essere indotti a ritenere che la nuova pandemia imponga al datore di lavoro di integrare ed aggiornare il DVR.
La questione è diffusamente discussa tra i tecnici e gli operatori di settore e trova soluzioni non sempre univoche.
Invero, da un’attenta lettura del Testo Unico salute e sicurezza, si evince che la redazione del DVR attenga esclusivamente a quelli connaturati all’attività lavorativa ed al processo produttivo ed impone al datore di lavoro di predisporre misure di prevenzione necessarie a prevenire detti rischi.
É sotto questa luce che va interpretato il rischio biologico generico, che quando non connesso all’attività lavorativa, esula da quello che è il contenuto obbligatorio del DVR.
Ne consegue che l’obbligo di aggiornamento del DVR riguardi esclusivamente quelle attività ove il rischio biologico sia un rischio professionale, endogeno, che trova la sua fonte direttamente nell’attività concretamente svolta. Tra queste rientrano, a titolo esemplificativo, le attività in cui si fa un utilizzo deliberato di agenti biologici o in cui si ha una possibilità di esposizione connaturata alla tipologia dell’attività svolta, dunque, ambienti sanitari, socio-sanitari o laboratori di ricerca.
Al contrario, in relazione a tutti gli ambienti lavorativi non sanitari, dove il rischio biologico è esclusivamente generico, esogeno, non sussiste l’obbligo di aggiornamento del DVR.
A tali conclusioni sono pervenute anche alcune Regioni, quali ad esempio la Regione Veneto (tra le prime ad affrontare l’emergenza) oltre all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare del 13 marzo 2020.
Possiamo trarre una prima conclusione che solo apparentemente sembrerebbe dare luogo ad una dicotomia: il datore di lavoro è tenuto a tutelare i propri dipendenti dal rischio di contagio apprestando tutte le misure di sicurezza necessarie a ridurre detto rischio, tuttavia, non ha alcun obbligo di aggiornamento del DVR, qualora, lo si ribadisce, si verta in ambienti di lavoro non sanitario.
L’adempimento di tali obblighi – pur non comprendendo una nuova valutazione dei rischi con la conseguente sanzione nel caso di omissione – richiede, in ogni caso, una condotta attiva da parte del datore di lavoro nella predisposizione di misure concrete tese a contenere il rischio di contagio, allineandosi alle raccomandazioni impartite dalle autorità a livello nazionale e regionale.
Quanto alle misure da adottare concretamente, la normativa emergenziale ha introdotto una serie di raccomandazioni rivolte a tutte le attività produttive industriali e commerciali, raccomandazioni che hanno trovato specifica attuazione nel Protocollo firmato in data 14 marzo 2020, sottoscritto da Governo, organizzazioni datoriali e sindacali recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Per scongiurare la diffusione del contagio, il Governo, con più decreti, ha sospeso tutte le attività commerciali, produttive e industriali, salvo quelle ritenute essenziali, di cui al tassativo elenco contenuto nell’allegato al dpcm 22 marzo 2020 n.6 come modificato dal decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 marzo 2020.
Accanto ad esse, residuano attività che possono non essere sospese in quanto ritenute collaterali o a servizio delle prime, a condizione però che l’azienda offra garanzia di rispetto delle norme di sicurezza anticontagio.
In tal caso la possibilità di esercizio dell’attività è condizionata ad una comunicazione/autorizzazione amministrativa volta a consentire la continuità produttiva delle aziende appartenenti alla filiera delle c.d. attività essenziali, previa verifica del rispetto delle condizioni di sicurezza.
Lo stesso dpcm, poi, all’art. 3 codifica – per tutte le imprese le cui attività non siano sospese (perché rientranti nelle attività di cui all’allegato 1 oppure perché autorizzate dall’Autorità prefettizia) – in cosa consista lo specifico obbligo di sicurezza, mediante il richiamo alla obbligatorietà del rispetto dei contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali.
É indubbio, quindi, che il Protocollo rappresenti un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
Senza alcuna pretesa di esaustività, il Protocollo, richiamando le raccomandazioni del dpcm 11 marzo 2020, elenca le seguenti attività che devono essere regolamentate per le finalità di prevenzione:

  • le modalità di ingresso ed uscita dei dipendenti dall’azienda e di accesso dei fornitori esterni, la gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack ecc…), gli spostamenti interni, le riunioni, gli eventi e la formazione oltre l’organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte, smart work e rimodulazione dei livelli produttivi);
  • l’igiene personale di ciascun lavoratore e la pulizia e sanificazione dell’azienda;
  • la fornitura di dispositivi di protezione individuale;
  • la sorveglianza sanitaria e la gestione di soggetto sintomatico nell’ambiente di lavoro;
  • l’informazione nei confronti dei dipendenti;
  • la costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.

Vi è poi da chiarire come veicolare all’interno della realtà aziendale le linee guida adottate nel Protocollo e, quindi, individuare le modalità concrete con cui il datore di lavoro possa scongiurare sia il rischio di contagio sia quello di una eventuale contestazione penale.
Va chiarito, infatti, che una volta stabilito che sussiste una posizione di garanzia in capo al datore di lavoro in relazione al rischio di contagio dei propri dipendenti, nel caso in cui questi non si sia attivato e si verifichi l’evento da scongiurare (rectius contagio), può vedersi contestati reati quali le lesioni colpose o – nei casi più gravi – l’omicidio colposo.
Strumento privilegiato in tale senso è indubbiamente rappresentato dai modelli organizzativi di cui al D. Lvo. 231/2001 che andrebbero adottati o aggiornati rispetto alla nuova emergenza epidemiologica. Questo tipo di strumento ha il pregio di apprestare una tutela giuridica non solo al datore di lavoro ma anche all’Ente.
Tuttavia, in assenza di modelli organizzativi 231 residuano altre possibilità che, se non coprono una eventuale responsabilità dell’Ente, ben posso essere utilmente spese per evitare possibili future contestazioni al datore di lavoro.
Un ottimo spunto di riflessione viene offerto dalla già citata circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ove si legge: “è consigliabile formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte. Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”.
Pertanto, il datore di lavoro, al fine di evitare future contestazioni, dovrà formalizzare le azioni poste in essere e procedimentalizzare l’adeguamento aziendale alle linee guida.
Infatti, qualora nonostante l’adeguamento e la procedimentalizzazione delle linee guida, si verificasse all’interno dell’azienda un caso di contagio, la formalizzazione delle misure ed il controllo del rispetto delle medesime attesterebbero come il datore di lavoro abbia fatto tutto quanto necessario al fine di scongiurare l’evento stesso.
Da ultimo, non deve essere sottovalutato l’ulteriore profilo difensivo rappresentato dalla prova, che spetterebbe all’Accusa, della sicura riconducibilità del contagio all’interno del luogo di lavoro; qualora, questo quesito trovasse risposta affermativa, l’Accusa dovrebbe, altresì, dimostrare che il contagio intraziendale sia avvenuto in ragione di una “falla” nella predisposizione o nel controllo del rispetto delle procedure adottate.
Concludendo, gli imprenditori dovranno necessariamente attivarsi e predisporre le procedure necessarie per il contenimento del contagio intraziendale al fine di scongiurare possibili e future contestazioni sia sul piano civilistico che penalistico.

Avv. Andrea Di Giuliomaria

avvocato di giuliomaria

 

CHIARIMENTI IN TEMA DI DIVIETO DI ASSEMBRAMENTO E IN RELAZIONE AGLI SPOSTAMENTI DELLE PERSONE FISICHE.

CIRCOLARE DEL MINISTRO DELL’INTERNO DEL 31 MARZO 2020

Il Ministero dell’Interno, con circolare del 31 marzo 2020, ha chiarito alcuni aspetti relativi al divieto di assembramento e allo spostamento delle persone fisiche, ribadendo l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza minima di almeno un metro da ogni altro soggetto.

Il Governo ha focalizzato la propria attenzione sulle strutture di accoglienza (ad esempio case-famiglia, ma verosimilmente anche strutture della medesima natura quali residenze per anziani o simili) precisando che, la compresenza in uno spazio aperto di più persone ospiti della medesima struttura, non viola il divieto di assembramento. Del tutto logicamente, tali realtà possono essere considerate speculari ad un nucleo familiare di maggiore dimensione ove le persone vivono a stretto contatto quotidianamente, sia nell’abitazione che nelle pertinenze di essa.

Per quanto concerne i soggetti che dall’esterno accedono alle strutture di cui sopra (operatori, fornitori, familiari ecc..) si rinviene nella Circolare l’introduzione da parte del Governo, per la prima volta, di un obbligo all’utilizzo di dispositivi di protezione (mascherine e guanti).

Per quanto riguarda le limitazioni relative allo spostamento delle persone fisiche la circolare in commento opera alcune precisazioni.

Ed invero, con riferimento alla regolamentazione degli spostamenti dei nuclei familiari, il Governo chiarisce che un solo genitore può svolgere attività motoria unitamente al figlio minore nei pressi della propria abitazione e portarlo con sé negli spostamenti motivati da situazioni di necessità o motivi di salute (ad esempio potrà recarsi a fare la spesa congiuntamente al figlio minore o recarsi dal medico per esigenze proprie o del figlio), nell’evidente considerazione che quest’ultimo non potrà essere lasciato solo presso l’abitazione.

Vengono, inoltre, ribaditi i divieti di svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto e di accedere a parchi, ville, aree gioco o giardini pubblici, già presenti nell’ordinanza del Ministro della Salute del 20 marzo 2020, Non è quindi concesso uscire dalla propria abitazione se non per svolgere un’attività giustificata, esaurita la quale si dovrà fare immediato rientro presso la propria abitazione. La permanenza in luogo pubblico, quindi, dovrà essere limitata allo stretto necessario. La circolare chiarisce e conferma, altresì, la possibilità di svolgere esclusivamente attività motoria (camminare) individualmente e nelle vicinanze della propria abitazione. L’attività sportiva (jogging) risulta ad oggi vietata. Sul punto il dpcm 9 marzo 2020 permetteva, mantenendo le due categorie distinte, di praticare sport ed attività motorie all’aperto. Tuttavia, con successiva ordinanza del 20 marzo 2020, il Ministro della Salute aveva già introdotto un’ulteriore restrizione, mantenendo in essere esclusivamente la possibilità di svolgere attività motoria individualmente, in prossimità della propria abitazione.

Rimane consentito, comunque, spostarsi a piedi in presenza di esigenze lavorative, situazioni di necessità e motivi di salute. Al di fuori di questa casistica, quindi, con finalità di mero svago, risulta ormai possibile soltanto concedersi una camminata nei pressi della propria abitazione.

Con tale circolare il Governo, infine, qualifica come situazione di necessità o motivo di salute, la possibilità per chi assiste persone anziane o inabili, di raggiungere gli stessi per accompagnarli, nei pressi dell’ abitazione, nello svolgimento dell’attività motoria.

Pertanto, la ratio posta a base del complesso normativo, resta quella di autorizzare spostamenti individuali in presenza di determinate esigenze/giustificazioni, con l’eccezione di quei casi in cui vi siano soggetti minori, anziani o inabili che possano necessitare di essere affiancati durante i loro spostamenti, spostamenti che dovranno essere comunque sempre sorretti da una delle esigenze disciplinate dalla legge. Quanto previsto dalla circolare risulta pienamente in linea con le finalità proprie della normativa emergenziale, tese a ridurre al minimo la presenza di persone in circolazione, la creazione di assembramenti ed a limitare gli spostamenti consentendoli soltanto in presenza di specifiche ragioni disciplinate dalla legge.

Pisa, 1 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

 

avvocato di giuliomaria

 

 

IL NUOVO DECRETO LEGGE 25 MARZO 2020, N. 19

E LE NUOVE DISPOSIZIONI IN AMBITO SANZIONATORIO

Con il decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, in vigore dal 26 marzo 2020, il Governo ha previsto la possibilità di adottare una o più misure, per periodi predeterminati, tra quelle indicate in via generale nel medesimo decreto, ha modificato il sistema sanzionatorio nel caso di violazione delle misure stesse e delineato i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali in relazione alla spendita dei poteri di emergenza.

La normativa

Il decreto legge del 25 marzo ha abrogato il decreto legge 23 febbraio 2020, n. 18, sostituendolo integralmente. Al pari del precedente decreto, il Governo ha nuovamente posto le basi per affrontare l’emergenza, prevedendo il potere di adottare una o più misure tra quelle indicate per categorie generali nello stesso decreto (divieto spostamenti delle persone, sospensione attività, chiusura di luoghi pubblici, sospensione di servizi pubblici ecc…), al fine di contenere la diffusione del contagio. Si tratta di attività programmatica a cui seguiranno nuovi dpcm che prevederanno misure più o meno restrittive sulla base della concreta situazione di rischio che di volta in volta verrà riscontrata.

Ciò non equivale a dire che, ad oggi, non sussista alcuna limitazione. Infatti, nelle more dell’adozione dei decreti attuativi:

  1. sono fatti salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanati ai sensi del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e continuano ad applicarsi, nei termini originariamente previsti, le misure già adottate con i dpcm emanati in data 8 marzo, 9 marzo, 11 marzo e 22 marzo. Pertanto, fino al 3 aprile 2020 o data precedente nel caso di nuovo intervento del Governo, continueranno ad applicarsi le misure disposte e attualmente vigenti in relazione a spostamenti, divieti o sospensioni. Quindi, in attesa dell’adozione dei nuovi decreti, continuano ad operare i vecchi dpcm e le misure da questi disposti;
  2. possono essere disposte misure dal Ministro della Salute con ordinanza, in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute, con efficacia limitata fino all’entrata in vigore dei nuovi dpcm;
  3. possono essere introdotte misure ulteriormente restrittive da parte delle Regioni (nell’ambito di quelle categorie elencate nel decreto), in caso di specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario nel territorio di competenza o in una parte di esso, con efficacia limitata, anche in questo caso, fino all’entrata in vigore dei dpcm.

Il nuovo decreto è stato emanato, dichiaratamente, al fine di chiarire e regolare i rapporti tra gli organi di Stato (Governo e Parlamento) e le amministrazioni locali.

Il decreto legge prevede che ciascun dpcm abbia una durata non superiore a 30 giorni e che, nel complesso, le misure possano essere adottate fino al 31 luglio 2020, data corrispondente alla fine dello stato d’emergenza. Ed invero, con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 è stato dichiarato lo stato d’emergenza per 6 mesi (dunque fino al 31 luglio 2020) in conseguenza del rischio sanitario connesso al Covid-19.

È necessario a tal proposito chiarire che la data del 31 luglio 2020 non indica la durata delle misure di contenimento, quanto il termine ultimo entro il quale il Governo è legittimato ad adottare ulteriori restrizioni o prorogare quelle già in essere. Resta inteso che lo stato d’emergenza possa essere revocato in qualsiasi momento e che le misure possano cessare anteriormente a quella data oppure possano essere graduate in modo più o meno restrittivo in base all’evoluzione della situazione, o essere limitate esclusivamente ad alcune porzioni del territorio nazionale.

Le nuove previsioni in materia di sanzioni

La modifica più rilevante introdotta con il decreto legge concerne le sanzioni, vale a dire la risposta sanzionatoria nel caso di violazione delle misure imposte.

Preliminarmente, va chiarito che a dispetto dei proclami dei giorni scorsi, che annunciavano la sostituzione della sanzione penale con quella meramente amministrativa, residuano tutt’oggi ipotesi di condotte penalmente rilevanti, alcune delle quali espressamente previste dal decreto legge.

È utile fare un po’ di chiarezza.

Condotte integranti illecito amministrativo punite con una sanzione pecuniaria e/o con la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio o attività:

  • la violazione di tutte le misure indicate in via generale dal decreto, così come verranno specificate dai dpcm attuativi, comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa, irrogata del Prefetto, del pagamento di una somma di denaro da euro 400 ad euro 3000. Inoltre, qualora il mancato rispetto delle misure avvenga mediante l’utilizzo di un veicolo, le sanzioni sono aumentate fino a un terzo e nel caso di reiterata violazione della medesima disposizione la sanzione amministrativa è raddoppiata. Pertanto, la violazione delle misure imposte non costituisce più reato ma illecito amministrativo punito con una sanzione pecuniaria. Tale previsione è efficace anche per le condotte poste in essere fino alla data di entrata in vigore del decreto, rispetto alle quali è prevista una riduzione della metà della sanzione minima amministrativa (euro 400 ridotta ad euro 200);
  • nel caso delle misure previste dall’art. 1, comma 2 lett. i), m), p), u), v), z) e aa) del decreto, che prevedono tra le altre anche la sospensione delle attività produttive e commerciali, oltre alla sanzione amministrativa suddetta (da euro 400 ad euro 3000) si applica, altresì, la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. Nelle more dell’adozione del provvedimento di chiusura può essere disposta anche la chiusura provvisoria dell’esercizio o dell’attività per una durata non superiore a 5 giorni, tempo che dovrà essere scomputato dal periodo di sospensione definitivo inflitto dal Prefetto. Nel caso di reiterata violazione della medesima disposizione la misura accessoria viene applicata nella misura massima.Tutti i procedimenti amministrativi sorti in seguito a tali contestazioni rimangono comunque sospesi fino al 15 aprile 2020 ai sensi dell’art. 103, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18.

Condotte integranti reato

L’art. 4, comma 1, ove si prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa nel caso di violazione delle misure imposte, fa salvo il caso in cui il fatto costituisca reato. Pertanto, rimangono penalmente rilevanti:

  • la dichiarazione mendace nell’autodichiarazione circa le giustificazioni che legittimano lo spostamento, integra il reato di cui all’art. 483 c.p.;
  • la violazione del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora, da parte di chi è sottoposto alla misura della quarantena perché risultato positivo al virus, oggi risulta punita, ai sensi dell’art. 260 del TULS, con l’arresto da 3 a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5000.

Dunque, in ordine a tale ultima fattispecie di reato deve ricorrere una doppia condizione: accertata positività al virus e conseguente provvedimento di quarantena. Le clausole aperte inserite nel decreto legge (“salvo che il fatto costituisca reato” o “comunque più grave reato”) lasciano aperta la possibilità che vengano contestate le più classiche fattispecie penali quali le lesioni personali o omicidio di cui agli artt. 590 e 589 c.p. se colposi oppure 582 e 575 c.p. se dolosi, in base all’evento cagionato.

La disciplina transitoria

L’art. 4, comma 1 prevede che “il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero dell’articolo 3, e’ punito con la sanzione amministrativa (..omissis…)”.

Tale disposizione sembrerebbe prevedere la sanzione pecuniaria soltanto rispetto alle violazioni delle restrizioni previste nei dpcm che devono essere ancora emanati (quelli di cui all’art. 2 del decreto). Mentre rispetto alle violazioni precedenti viene stabilita la depenalizzazione e l’applicazione della sanzione amministrativa.

Residuerebbe, quindi, apparentemente, una parentesi temporale che va dal 26 marzo alla data di emanazione dei dpcm, ove le eventuali violazioni risulterebbero sprovviste di sanzione. Soccorre il buon senso che, a dispetto dell’infelice formulazione legislativa, suggerisce che la norma debba essere interpretata nel senso che la sanzione amministrativa sia sin da oggi in vigore.

Modifica del modulo di autodichiarazione

Proprio in virtù delle novità introdotte, è stato messo a disposizione dal Governo un nuovo modello di autodichiarazione nel quale:

  • si fa riferimento alle eventuali limitazioni disposte con provvedimento del Presidente della Regione: tale previsione si è resa necessaria in considerazione dei poteri riconosciuti a questi dal nuovo decreto legge;
  • sono richiamate le sanzioni previste dall’art. 4 del decreto legge (vedi sopra) nel quale si indica quale conseguenza della violazione delle misure disposte, la sanzione amministrativa del pagamento di una pena pecuniaria;
  • si modifica nuovamente la parte relativa alla giustificazione dello spostamento. Mantenendo fermi i motivi di salute e le comprovate esigenze lavorative per tutti gli spostamenti e l’assoluta urgenza per i trasferimenti in Comune diverso, viene modificata la categoria della situazione di necessità.

In base al nuovo modulo di autodichiarzione questa andrà a giustificare tanto gli spostamenti all’interno del Comune quanto quelli fuori dal Comune “che rivestono carattere di quotidianità o che, comunque, siano effettuati abitualmente in ragione della brevità delle distanze da percorrere”. Ed invero, nella precedente circolare di questo studio del 24 marzo, per le situazioni di necessità extracomunali per brevi spostamenti quotidiani o abituali, era stato consigliato di non barrare alcuna casella mancando un’espressa previsione, nonostante tale ipotesi fosse già contemplata nella circolare del Ministro dell’Interno del 24 marzo.

Il nuovo modello di autodichiarazione colma questo vuoto e prevede che nel caso di spostamenti tra Comuni diversi, giustificati da situazioni di necessità abituali o quotidiane, si potrà barrare la relativa casella, indicando nella parte descrittiva il dettaglio dell’esigenza. In questi ultimi casi, come già da precedente circolare di questo studio, rientrano l’assistenza a congiunti e gli spostamenti relativi ai figli minori. A tal ultimo proposito, tuttavia, permangono dubbi in ordine alla possibilità dei genitori separati di ricongiungersi ai figli minori, nel caso in cui questi si trovino a distanze non catalogabili come “brevi spostamenti”.

Pisa, 26 marzo 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

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AUTODICHIARAZIONE COVID-19 E CONTROLLI

PROFILI PENALI

Allo scopo di contrastare il diffondersi del Coronavirus il Governo, con più decreti, ha disposto, per tutto il territorio nazionale, varie misure di sicurezza. Tra queste, quella di evitare di uscire dalla propria abitazione salvo che gli spostamenti non siano motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute.

Tali esigenze dovranno essere attestate mediante autodichiarazione, che potrà essere resa anche al momento del controllo, attraverso la compilazione del modulo messo a disposizione dal Governo e in dotazione a tutti gli operatori della Forza Pubblica. Il mancato rispetto delle misure disposte è sanzionato da codice penale, ed in particolare, integra due REATI:

  1. Art. 650 c.p. – Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità – Colui che esce dalla propria abitazione senza alcuna giustificazione è punito con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a 206,00 euro;
  2. Art. 483 c.p. – Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico – Colui che dichiara il falso con riguardo alla sussistenza di uno dei motivi giustificativi è punito con la reclusione fino a due anni;

 

COSA FARE QUINDI SE SI VIENE FERMATI?

  • Esibire l’autodichiarazione o, in mancanza di questa, dichiarare al pubblico ufficiale le ragioni della propria uscita. Si deve evitare assolutamente di dichiarare circostanze non vere in quanto il reato di cui all’art. 483 c.p. è molto più grave del 650 c.p. In ogni caso va tenuto presente che entrambi sono REATI e che la cosiddetta “ammenda” comminata dall’art. 650 c.p. NON è assolutamente assimilabile ad una multa in senso gergale. Si tratta di una vera e propria sanzione penale e, pagarla, equivale ad aver scontato una pena, con la conseguenza di “sporcare” la vostra anagrafe penale (la cosiddetta fedina penale).
  • La prima cosa da fare, se veniamo fermati e la Forza Pubblica ritiene ingiustificata la nostra motivazione di uscita (contestandoci quindi una violazione del decreto), è quella di chiedere di nominare un difensore di fiducia, perché una volta che vi viene contestata l’inosservanza del decreto, da quel momento, siete indagati. Si raccomanda anche di indicare quale luogo dove ricevere le notifiche del procedimento penale la propria residenza. Da quel momento in poi raccomandiamo di NON rilasciare alcuna dichiarazione senza la presenza del difensore.

 

Avv. Andrea Di Giuliomaria