Con la recente sentenza n. 38336 del 2022, la VI sez. pen. della Corte di cassazione si è districata in un delicato ambito – quello dei maltrattamenti in famiglia – fornendo delle coordinate fondamentali per tutti gli operatori giuridici.

Si ricostruiscano i fatti: tra il gennaio e l’agosto 2020, durante un breve periodo (non continuato) di convivenza, un uomo aveva maltrattato – fisicamente e verbalmente – la propria compagna. I giudici, sia in primo che in secondo grado, avevano condannato l’imputato per il reato di maltrattamenti in famiglia, poiché le condotte del medesimo erano apparse sussumibili nell’alveo dell’art. 572 c.p.

Tuttavia, mediante un lungimirante ricorso per cassazione, il difensore dell’imputato si doleva della decisione di merito, criticandone un punto in particolare: non era stata dimostrata l’esistenza del requisito della convivenza, ovvero di un rapporto caratterizzato da una coabitazione non occasionale.

Il Supremo Consesso, mediante un sopraffino ragionamento, si preoccupa innanzitutto di fare il punto circa la configurabilità del reato in parola. A differenza di numerose pronunce di legittimità che si erano “accontentate” – ai fini del reato ex art. 572 c.p. – di accertare l’esistenza di una relazione sentimentale nella quale i partner hanno instaurato un vincolo di solidarietà personale, questa volta la Cassazione “pretende” la sussistenza di una “coabitazione della coppia, caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo, tale da parificarla ad una relazione familiare”.

Attraverso un accurato richiamo ad una consolidata giurisprudenza della Consulta, il giudice di legittimità ammonisce come sia sempre indispensabile rispettare alla lettera la norma incriminatrice e non modificarne la portata, evitando di applicare soluzioni che rispondano ad una logica di interpretazione analogica in malam partem (vietata in materia penale). Tale divieto, infatti, impone di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative nell’abitazione dell’altro partner, possa considerarsi alla stregua di un’ipotesi di convivenza.

Seguendo questa intricata lectio iuris, la motivazione del giudice di merito appare incompleta ed incongrua, essendosi questi limitato ad affermare la sussistenza del requisito della convivenza, pur senza la prova di “un progetto di vita comune, ovvero di un’organizzazione stabile della quotidianità”.

Per concludere: alla luce di un’esegesi rispettosa del principio di legalità, si può parlare di “convivenza” solamente laddove risulti acclarata l’esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità. Il concetto di convivenza, in buona sostanza, deve essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza – materiale e spirituale – di vita.

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