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Il presente contributo ripercorre le modifiche introdotte con la riforma del diritto penale tributario operata con il decreto legge 26 ottobre 2019, n. 124, così come convertito in legge con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157, il quale, da un lato, ha riformato il testo del D. Lvo. 10 marzo 2000, n. 74, modificando la disciplina relativa a talune fattispecie penali tributarie ed estendendo l’applicabilità ad alcuni reati tributari della c.d. confisca “allargata”, dall’altro, ha inserito un nuovo articolo nel D. Lvo. 8 giugno 2001, n. 231, aggiungendo alcuni reati tributari al catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato.

La legge 19 dicembre 2019, n. 157 ha convertito in legge, con modificazioni, il decreto legge 26 ottobre 2019, n. 124 il quale – nell’ambito di un intervento di più ampio respiro in materia fiscale di contrasto all’evasione – con l’art. 39 ha introdotto modifiche alla disciplina penale in materia tributaria e ha inserito alcuni reati tributari nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato.
La riforma del diritto penale tributario è stata operata, in primis, attraverso un intervento sul testo del D. Lvo. 10 marzo 2000, n. 74 caratterizzato in generale da maggiore severità nella repressione dell’illecito tributario. In particolare, l’intervento è stato operato attraverso l’aumento delle pene edittali, minime e massime, di alcuni reati tributari, l’abbassamento di alcune soglie di rilevanza penale, l’estensione della confisca “allargata” di cui all’art. 240 bis c. p. ad alcuni reati tributari.
Ed invero, molteplici le fattispecie tributarie oggetto di intervento.
La riforma del diritto penale tributario ha riguardato, in primo luogo, l’articolo 2 del D. Lvo. 74/2000 concernente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
La fattispecie in esame punisce “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”.
Il secondo comma della norma precisa che, affinché venga integrato il reato, le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti devono essere registrati nelle scritture contabili obbligatorie o detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
La norma non prevede soglie di rilevanza penale del fatto.
Il legislatore è intervenuto, in primis, sulla cornice edittale della pena prevista, che è passata dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da quattro a otto anni. Ad un aggravamento della risposta sanzionatoria ha corrisposto l’introduzione – con il nuovo comma 2bis – di una soglia di rilevanza penale al di sotto della quale la fattispecie è considerata di minore gravità. In particolare, qualora l’ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore ad euro centomila la pena prevista è quella pre-riforma della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Soltanto le applicazioni giurisprudenziali chiariranno se tale previsione abbia introdotto una circostanza attenuante oppure una fattispecie autonoma di reato, sussistendo a sostegno di entrambe le tesi argomentazioni fondate e giuridicamente sostenibili.
La riforma del diritto penale tributario, ha riguardato poi il successivo articolo 3 del D. Lvo. 74/2000 – concernente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
Tale disposizione, facendo salva l’applicazione dell’art. 2, punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente, ricorrono le condizioni previste dalla norma ed il superamento delle relative soglie di punibilità.
Anche qui, ai fini dell’integrazione del reato, i documenti falsi devono essere registrati nelle scritture contabili obbligatorie o detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
L’intervento legislativo ha riguardato anche per tale fattispecie l’inasprimento della risposta sanzionatoria portando la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da tre a otto anni.
Deve aggiungersi, con riferimento alle fattispecie appena esaminate, che la riforma del diritto penale tributario ha, inoltre, modificato l’art. 13, comma 2 estendendo alle stesse la causa di non punibilità ivi prevista. In particolare, i reati di cui agli artt. 2 e 3 (al pari dei reati di cui agli artt. 4 e 5 già previsti dal comma 2 dell’art. 13) non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
La modifica dell’art. 13 – e, dunque, l’inserimento nello stesso delle fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 del decreto tra i reati non punibili nel caso di integrale pagamento del debito tributario – ha inciso indirettamente anche sulla disciplina di accesso al c.d. patteggiamento di cui all’art. 13 bis, comma 2 del decreto per i reati in questione.
Ed invero, tanto la causa di non punibilità quanto l’accesso al rito del c.d. patteggiamento vedono quale loro presupposto l’integrale pagamento del debito tributario. Al fine di evitare una contraddizione interna del sistema, la giurisprudenza è intervenuta nel tempo per chiarire il discrimen operativo delle due norme, problematica che in seguito alla riforma in commento si pone anche in relazione ai reati di cui agli artt. 2 e 3 del decreto. Orbene, può ritenersi – salvo mutamenti interpretativi post riforma – che l’indirizzo ormai accolto dalla giurisprudenza in relazione agli artt. 4 e 5 già previsti dall’art. 13, comma 2, possa ritenersi applicabile anche alle nuove fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 oggetto di ultima introduzione nella norma (sul punto cfr. Cass. Pen., sez. III, 2 ottobre 2019, n. 47287).
La riforma del diritto penale tributario ha interessato, poi, l’articolo 4 del D.Lvo. 74/2000 disciplinante il delitto di dichiarazione infedele. Tale fattispecie – facendo salva l’applicazione dei precedenti artt. 2 e 3 del medesimo decreto – punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando congiuntamente ricorrono le condizioni previste dalla norma e vengono superate le soglie di rilevanza penale ivi indicate.
Il legislatore ha riformato tale fattispecie, in primis, mediante l’aggravamento della pena edittale, che è passata dalla reclusione da uno a tre anni alla reclusione da due a quattro anni e sei mesi.
Inoltre – con l’effetto di anticipare la tutela penale dell’illecito fiscale – l’intervento riformatore ha abbassato le soglie di punibilità superate le quali la condotta assume rilevanza penale. In particolare, al comma 1 lettera a) della norma in commento, l’ammontare dell’imposta evasa, superata la quale il comportamento diviene penalmente rilevante, è passata da euro 150.000 ad euro 100.000; quanto alla lettera b) del medesimo comma, l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, deve essere superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro due milioni, contro gli euro tre milioni precedentemente previsti.
Infine, il legislatore ha mantenuto la causa di non punibilità prevista dal comma 1 ter del medesimo articolo, restringendo, tuttavia, la sua operatività alla condizione che le valutazioni “complessivamente” considerate – e non più “singolarmente” come previsto dal testo previgente – differiscono in misura inferiore al 10% da quelle corrette. Si considera, dunque, al fine dell’irrilevanza penale l’effetto congiunto delle singole valutazioni scorrette.
La riforma del diritto penale tributario ha modificato, inoltre, il delitto di omessa dichiarazione di cui all’articolo 5 del D. Lvo. 74/2000. Tale disposizione punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro 50.000. Tale delitto risulta integrato anche dall’omessa presentazione della dichiarazione da parte del sostituto di imposta quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro 50.000.
Il legislatore è intervenuto in senso repressivo attraverso l’aumento della pena edittale – tanto per l’omessa dichiarazione del contribuente quanto per quella del sostituto di imposta – che è passata dalla reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni alla reclusione da due a cinque anni.
La riforma del diritto penale tributario è poi intervenuta sull’articolo 8 del D. Lvo. 74/2000, che punisce chiunque, al fine di consentire a terzi delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
L’articolo 8 trova il suo corrispondente nell’art. 2 del medesimo decreto, norme che puniscono rispettivamente la condotta di chi emette la fattura o altro documento per operazioni inesistenti e quella di chi la utilizza nella propria dichiarazione. In relazione a tali fattispecie, la regola generale fissata dall’articolo 110 c.p. in tema di concorso di persone nel reato, trova deroga nell’art. 9 del decreto, che esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente e viceversa.
Proprio quali facce della stessa medaglia, il legislatore ha modificato l’art. 8 in modo del tutto identico rispetto al corrispondete art. 2 del medesimo decreto.
Ed invero, è stata inasprita la risposta sanzionatoria elevando la pena prevista da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da quattro a otto.
Allo stesso modo ad una maggiore risposta sanzionatoria ha corrisposto l’introduzione di una soglia di punibilità al di sotto della quale il reato è considerato meno grave. Ed invero, il nuovo comma 2 bis dell’art. 8 prevede che se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore ad euro 100.000 si applica la pena previgente della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.
Vale anche per tale fattispecie la considerazione operata circa il dubbio dell’introduzione di una circostanza attenuante o di una fattispecie autonoma di reato.
La riforma è, infine, intervenuta sul delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’articolo 10 del D. Lvo. 74/2000. Tale fattispecie punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge tutto in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
In relazione a tale delitto il legislatore ha previsto l’aumento della pena dalla precedente reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da tre a sette anni.
Tutti gli interventi di riforma finora esposti – così come quelli concernenti la responsabilità amministrativa degli enti che vedremo in seguito – hanno efficacia dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione. Siamo di fronte, dunque, ad un decreto legge ad efficacia temporale differita, il quale – non producendo effetti immediati nell’ordinamento – si pone probabilmente in contrasto con i presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77 Cost. Non si pone, tuttavia, in tal modo alcuna questione intertemporale con riguardo alla successione tra decreto-legge e legge di conversione.
Aspetto particolarmente rilevante della riforma del diritto penale tributario concerne l’estensione della confisca “allargata” anche a taluni reati tributari.
Ed invero, l’istituto della confisca era già stato introdotto nel testo del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 con la riforma operata con il D. Lvo. 24 settembre 2015, n. 158, che aveva disciplinato la confisca con riferimento ai reati tributari – precedentemente contenuta nella legge finanziaria per il 2008 che operava un rinvio all’art. 322-ter c.p. – nel nuovo art. 12 bis. La norma prevede che nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo, salvo il caso che appartengano a persona estranea al reato (c.d. confisca diretta) ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, nella disponibilità del reo, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente).
La riforma del diritto penale tributario in esame ha esteso ai reati tributari anche la confisca “in casi particolari” o “allargata” – introdotta originariamente nel sistema normativo per far fronte a reati di una certa gravità idonei a creare una accumulazione di ricchezza illecita con successivo possibile reimpiego – misura di maggiore efficacia in quanto sganciata dalla dimostrazione di un nesso di strumentalità tra beni e reato.
Il nuovo articolo 12 ter prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p., per alcuni delitti indicati nella medesima norma, si applica l’art. 240-bis c.p., il quale, a sua volta, prevede la confisca di denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al reddito dichiarato o alla propria attività economica.
L’applicazione della confisca “allargata” concerne solo talune fattispecie penal-tributarie opera solo in seguito al superamento di determinate soglie. In particolare:

  • nel caso del delitto di cui all’art. 2 del decreto, quando l’ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore ad euro duecentomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 3 del decreto, quando l’imposta evasa è superiore ad euro centomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 8 del decreto, quando l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore ad euro duecentomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 11, comma 1 del decreto, quando l’ammontare delle imposte, sanzioni e degli interessi è superiore ad euro centomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 11, comma 2 del decreto, quando l’ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore ad euro duecentomila.

Il legislatore, inoltre, ha precisato che le disposizioni relative alla confisca si applicano esclusivamente alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.
Tale precisazione ha la funzione di derogare alla disciplina ordinaria concernente le misure di sicurezza, così qualificata la confisca dalla giurisprudenza. Ed invero, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il principio di irretroattività non valga per le misure di sicurezza, in virtù del combinato disposto degli artt. 25, comma 3 Cost., 199 e 200 c.p. In particolare, l’art. 200 c.p. dispone che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione (principio tempus regit actum). Secondo la giurisprudenza, dunque, le misure di sicurezza possono trovare applicazione anche con riferimento a reati commessi antecedentemente alla previsione per gli stessi della possibile applicazione di una misura di sicurezza.
Dunque, la norma intertemporale contenuta nell’art. 12 ter, comma 1bis del decreto, è intervenuta proprio in deroga alla disciplina legislativa generale ed alla relativa interpretazione giurisprudenziale, disponendo che la confisca allargata in materia di reati tributari potrà essere disposta solo in relazione a reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge.
La riforma del diritto penale tributario ha, infine, modificato il testo del D. Lvo. 8 giugno 2001, n. 231 inserendo, con il nuovo articolo 25-quinquiesdecies, alcuni reati tributari tra i reati presupposto della responsabilità degli enti dipendente da reato con conseguente applicazione delle relative sanzioni pecuniarie.
Dunque, la commissione di un reato tributario comporta l’irrogazione nei confronti dell’ente di una sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, per i delitti di cui agli artt. 2, comma 1, 3 e 8, comma 1D. Lvo. 74/2000 e fino a quattrocento quote, per i delitti di cui agli artt. 2, comma 2bis, 8, comma 2bis, 10 e 11 del medesimo decreto.
Qualora in seguito alla commissione dei delitti indicati l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.
Nei casi indicati sono, inoltre, applicate agli enti le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, lett. c), d) ed e) del D. Lvo. 231/2001, vale a dire il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi ed, infine, il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Avv. Andrea Di Giuliomaria                                       Avv. Silvia Dello Sbarba

Confisca del profitto del reato nel caso di versamento all’erario degli importi richiesti dall’Agenzia delle Entrate
Sentenza Cass. Pen., sez. III, 9/5/2018, n. 32213

Ai sensi dell’art. 12 bis, comma 2 D. L.vo 74/2000, non può essere disposta la confisca qualora il contribuente abbia interamente versato all’Agenzia delle Entrate gli importi da questa richiesti, essendo tale norma posta a garanzia della pretesa tributaria.

Si deve pervenire alla medesima conclusione anche qualora la quantificazione operata in sede amministrativa e versata dal contribuente all’Agenzia delle Entrate risulti divergente dalla quantificazione operata in sede penale, in ragione dell’intervenuto raggiungimento di forme di accordo, conciliazione o transazione fiscale fra il contribuente e l’Agenzia delle Entrate.

 

Penale Sent. Sez. 3 Num. 32213 Anno 2018
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: CORBETTA STEFANO
Data Udienza: 09/05/2018

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da
De Francesco Mario, nato a Torino il 15/12/1962

avverso l’ordinanza del 28/11/2017 del Tribunale della libertà di Torino

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro
Gaeta, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio;
uditi i difensori, avv. Sergio Lorenzo Vitali, del foro di Torino, e avv. Tonio Di
Iacovo, del foro di Roma, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del
ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’impugnata ordinanza, il Tribunale di Torino, sezione del Riesame, imparziale accoglimento del ricorso proposto nell’interesse di Mario De Francesco avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal g.i.p. del Tribunale di Torino in data 27 ottobre 2017, ex art. 321, comma 1, cod. proc. pen., in riferimento all’art. 322 ter cod. pen., riduceva l’importo di cui al sequestro fino alla concorrenza del valore massimo di euro 2.689.952, ossia in relazione ai soli importi delle imposte indirette, che si assumono evase.
Il sequestro è stato disposto nel procedimento a carico del De Francesco, in quanto indagato per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 2 d.lgs. n. 74 del 2000, per avere indicato, quale amministratore unico della Solver Enterprice srl (d’ora in avanti S.E.), nella dichiarazione annuale Ires e in quella Iva, al fine di evadere le relative imposizioni, elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, con l’evasione dei seguenti importi: 1.222.071 euro nel 2011; 1.248.231 nel 2012, 3.754.762 nel 2013.

2. Avverso l’indicata ordinanza, l’indagato, a mezzo del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, con cui si denuncia violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 321 cod. proc. pen., 322 ter cod. pen., 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, 6, comma 9 bis.3, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015.
Premette il ricorrente che, in data 13 novembre 2017, l’Agenzia delle Entrate ha notificato al contribuente S.E., di cui il De Francesco è il legale rappresentate, cinque atti di contestazione, riportati integralmente nel ricorso, riferiti agli anni di imposta dal 2011 al 2015, che non contengono alcuna ripresa
fiscale sotto il profilo sia delle imposte dirette, sia delle imposte indirette, con l’applicazione, per ciascuna annualità, delle sanzioni previste dall’art. 6, comma 9 bis.3, d.lgs. n. 471 del 1997. In pari data, la S.E. ha provveduto al pagamento integrale delle sanzioni irrogate dall’Agenzia delle Entrate negli indicati atti di contestazione, come da copia del Modello unificato di pagamento per ciascuna annualità, pure integralmente riportati nel ricorso. Ciò premesso, osserva il ricorrente, il Tribunale ha ridotto l’importo di cui al sequestro relativamente all’asserita evasione delle imposte dirette, confermandolo, invece, per le imposte dirette. Premesso che le fatture in esame sono emesse in regime di reverse charge, in regione della natura dei beni compravenduti (rottami e materiali ferrosi), il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto ravvisabile il profitto del reato riconducibile al valore dell’imposta indebitamente detratta, poiché, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’utilizzatore perderebbe il diritto alla registrazione dell’importo IVA “a credito”, determinandosi in tal modo un debito iva (virtuale), derivante dalla registrazione del medesimo importo “a debito”.
Ad avviso del ricorrente, l’interpretazione seguita dal Tribunale disattenderebbe non solo le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 16/E del 11 maggio 2017 relativamente alla disciplina del reverse charge, ma, soprattutto, il disposto dell’art. 12 bis comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, che inibisce la confisca per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario. Ed invero, posto che la ragione della confisca, in materia penale tributaria, risiede nel recupero del debito tributario, come accertato dall’Agenzia delle Entrate, una volta estinto quest’ultimo, come nel caso di specie, verrebbe meno la funzione del vincolo reale disposto a carico del contribuente. In altri termini, stante l’assenza di profitto, in conseguenza del condono “tombale” effettuato dalla S.E. in relazione (anche) alle annualità in contestazione, non vi sarebbe più spazio per il provvedimento ablatorio, lasciando, peraltro, impregiudicato il futuro giudizio di merito in ordine alla sussistenza del reato.

3. Con motivi aggiunti, depositati in data 19 aprile 2018, il ricorrente sviluppa le argomentazioni dedotte con l’atto introduttivo, insistendo per l’accoglimento del ricorso. In particolare, si evidenzia come il Tribunale abbia applicato in maniera che si assume distorta i principi affermati da Cass. civ., Sez. 5, n. 16679, 4 febbraio 2016, Rivadossi, secondo cui, anche quando le fatture utilizzate sono soggette al regime dell’inversione contabile (cd. reverse charge) – e dunque non generano passaggio di denaro tra le parti a titolo di iva, perché il cessionario non la versa al cedente – tuttavia la frode opera, come limite al principio fondamentale di neutralità dell’iva, ossia al principio secondo cui la detrazione dell’imposta è accordata se i requisiti dell’operazione sono comunque soddisfatti. In altri termini, secondo quella decisione, solo se l’operazione sottostante è fraudolenta, e quindi la fattura registrata è viziata da inesistenza, l’acquirente viene a perdere
il diritto alla detrazione dell’iva per le la fattura è stata emessa in regime di reverse charge; una situazione del genere, per contro, non sarebbe ravvisabile nel caso in esame, in quanto l’Amministrazione finanziaria ha dato atto della buona fede della S.E. con gli indicati atti di accertamento, in cui non è stata elevata alcuna contestazione relativamente alle imposte indirette. In ogni caso, il Tribunale avrebbe omesso ogni valutazione in relazione al profilo della proporzionalità tra l’importo della somma stimata quale profitto e il valore dei beni nella disponibilità dell’indagato, a carico del quale è stata applicata la misura ablativa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. Premesso che, in questa sede, non è in discussione la sussistenza del delitto di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, ma solo le condizioni legittimanti il disposto sequestro del profitto del reato in esame, ritiene il Collegio che l’ordinanza impugnata non abbia fatto corretta applicazione dell’art. 12 bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”.

3. Invero, il sequestro in questione è stato disposto come misura prodromica volta a garantire l’effettività dell’eventuale successiva confisca del profitto del reato; orbene, osserva la Corte come la circostanza che il contribuente abbia inteRente versato all’erario gli importi richiesti dall’Agenzia delle Entrate, con riguardo a tutte le annualità in contestazione, si pone come elemento necessariamente ostativo alla possibilità di procedere alla confisca di quello che, dal Tribunale, è ritenuto essere il profitto del reato e, per l’effetto, al sequestro finalizzato alla confisca medesima.
3.1 Né può avere un qualche rilievo il fatto, che, nel caso di specie, vi sia divergenza fra la quantificazione dell’imposta evasa compiuta dal Tribunale – peraltro in forza di una discutibile interpretazione che nega efficacia retroattiva delle norme più favorevoli introdotte dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (il quale ha aggiunto, all’art. 6 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, i commi 9-bis.1, 9- bis.2 e 9-bis.3) in tema di disciplina sanzionatoria delle operazioni soggette a reverse charge – e l’accertamento del suo ammontare da parte dell’Erario, ossia del creditore, il quale, per contro, ha applicato retroattivamente le disposizioni indicate e le conseguenti sanzioni, come ritenuto dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 16/E del 11 maggio 2017.

3.2 Questa Corte, infatti, con indicazione che merita di ricevere continuità in quanto evidente espressione di un atteggiamento di favor del legislatore per le forme di definizione del profilo strettamente tributario delle vicende connesse alla violazione delle disposizioni penali di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 che consentano comunque all’Erario di conseguire il pagamento delle imposte ritenute dovute, ha precisato che, in materia di confisca di beni costituenti il profitto o il prezzo di reati tributari, la previsione di cui all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, introdotta dal d.lgs. n. 158 del 2015, secondo la quale, anche in caso di condanna o di applicazione della pena concordata, la confisca, diretta o per equivalente, “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”, si riferisce alle assunzioni d’impegno nei termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria di settore, ivi compresi gli accertamenti con adesione, IR conciliazione giudiziale, le transazioni fiscali ovvero l’attivazione di procedure di rateizzazione automatica o a domanda (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 7 luglio 2016, n. 28225).

3.3 Indubbiamente tale principio, in forza del quale deve attribuirsi rilevanza determinante, ai fini della esclusione della confiscabilità del profitto del reato tributario, alla quantificazione di esso operata in sede amministrativa, anche laddove la stessa sia divergente rispetto a quella acquisita in sede penale in ragione dell’intervenuto raggiungimento di forme di accordo, conciliazione o transazione fiscale fra il contribuente e la Agenzia delle Entrate, è, a fortiori, operante laddove non di solo impegno ad adempiere alla obbligazione tributaria si tratti ma, come nel caso di specie, di effettivo adempimento di essa, comprensivo di interessi e sanzioni.
3.4. E difatti tale interpretazione è in linea con quanto affermato da questa Corte, secondo cui in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di “sgravio” da parte dell’Amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 39187 del 02/07/2015 – dep. 28/09/2015, Lombardi Stronati, Rv. 264789).
3.5. Non è perciò pertinente il richiamo, operato dal Tribunale, al principio del “doppio binario”, ossia al fatto che le determinazioni assunte dall’Agenzia delle Entrate non sono vincolanti per il giudice penale; un principio del genere, infatti, trova applicazione in relazione alla sussistenza degli elementi tipici di questo o quell’illecito penale tributario, ma non relativamente alla determinazione del profitto del reato, laddove il creditore, ossia l’Agenzia delle Entrate, a seguito del pagamento di quanto dovuto dal contribuente, dichiari di non aver più nulla da pretendere dal contribuente medesimo. In altri termini, così come la previsione di cui al comma 1 dell’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, disponendo, come obbligatoria, la confisca dei beni che, ai fini che qui rilevano, costituiscono il profitto dei reati tributari, è posta a garanzia della pretesa tributaria, parimenti l’ipotesi del comma 2 sta a significare che se non vi è pretesa tributaria, nemmeno vi può essere confisca e, di conseguenza, neanche la cautela reale ad essa finalizzata.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e il decreto di sequestro in
data 27 ottobre 2017 e dispone la restituzione di quanto in sequestro all’avente
diritto.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen.
Così deciso il 09/05/2018.

 

 

Pagamento integrale del debito tributario: integrazione della causa di non punibilità o presupposto per accedere al rito del c.d. patteggiamento?
Sentenza Cass. Pen., Sez. III, 2/10/2019 n. 47287

 

In relazione ai reati di cui agli artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater D. L.vo 74/2000, l’integrale estinzione del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento costituisce presupposto di operatività sia della causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 1,  D. L.vo 74/2000 che dell’accesso al rito del c.d. patteggiamento di cui all’art.13-bis del medesimo decreto.
Al fine di evitare una contraddizione interna del sistema, l’orientamento accolto in giurisprudenza ritiene che qualora vi sia l’integrale pagamento dovrà trovare applicazione la causa di non punibilità; al contrario in assenza di qualunque pagamento resterà impregiudicata la possibilità per l’imputato di chiedere l’applicazione della pena.
Diversamente per i reati di cui agli artt. 4 e 5 D. L.vo 74/2000, dal combinato disposto degli artt. 13, comma 2 e 13 bis del medesimo decreto, il pagamento del debito tributario intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e prima che l’autore abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali integrerà la causa di non punibilità; qualora, invece, il pagamento sia intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento ma dopo la conoscenza delle attività di cui sopra l’imputato potrà richiedere l’applicazione della pena.

 

Penale Sent. Sez. 3   Num. 47287  Anno 2019
Presidente: LIBERATI GIOVANNI
Relatore: CORBO ANTONIO
Data Udienza: 02/10/2019

 

SENTENZA

sul ricorso proposto
da Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze
nel procedimento nei confronti di
Cetin Mehmet Emin, nato in Turchia il 03/01/1974
avverso la sentenza in data 21/02/2019 del Tribunale di Livorno
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

 

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 21 febbraio 2019, il Tribunale di Livorno, in composizione monocratica, ha applicato a Mehmet Ennin Cetin la pena di un anno e quattro mesi di reclusione condizionalmente sospesa, a norma dell’art. 444 e ss.cod. proc. pen., in ordine al reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, commesso quale legale rappresentante della società “Med Kebab Production s.r.l.” con riferimento alla dichiarazione I.V.A. per l’anno di imposta 2012, determinando una evasione a tale titolo di 167.603,00 euro.
La sentenza impugnata ha omesso di disporre confisca.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze, articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge per illegalità della pena, avendo riguardo alla inapplicabilità, nella specie, del rito del patteggiamento per difetto dei presupposti previsti dall’art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Si deduce che l’art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000 esclude la possibilità di accedere al rito di cui all’artt. 444 e ss. cod. proc. pen. quando non vi sia stato integrale pagamento del debito o ravvedimento operoso e che tale violazione
determina l’illegalità della pena.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge per illegalità della pena, avendo riguardo alla mancata applicazione della confisca obbligatoria prevista dall’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Si deduce che, in caso di reato di omessa dichiarazione, la confisca deve essere obbligatoriamente ordinata stante il disposto di cui all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Fondate, innanzitutto, sono le censure esposte nel primo motivo, che deducono l’illegalità della pena per l’inapplicabilità del rito del c.d. “patteggiamento”, per il mancato pagamento del debito o per il mancato verificarsi del ravvedimento operoso.
2.1. Ad avviso del Collegio, per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000, il rito speciale previsto dall’art. 444 e ss. cod. proc. pen. deve ritenersi ammissibile, a norma dell’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, solo quando, pur non sussistendo più i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 13 d.lgs. cit., i debiti tributari sono stati comunque estinti prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.
Va precisato che la soluzione accolta segue ad una ricostruzione del dettato normativo che non intende in alcun modo porsi in contrasto con il principio, già affermato in sede di legittimità, secondo cui in relazione al delitto di omesso versamento dell’IVA, l’estinzione dei debiti tributari mediante integrale pagamento, da effettuarsi prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità del patteggiamento ai sensi dell’art. 13-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto l’art. 13, comma 1, configura detto comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili (così Sez. 3, n. 38684 del 12/04/2018, Incerti, Rv. 273607-01).
2.2. Per una più agevole comprensione della ricostruzione del sistema, è utile procedere ad una esposizione dei dati normativi rilevanti.
Innanzitutto, l’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, fissa in termini generali, per tutti i delitti previsti dal medesimo provvedimento normativo, il seguente presupposto di accesso al rito del c.d. “patteggiamento”: «Per i delitti di cui al presente decreto l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice
di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2.».
L’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, a sua volta, così tipizza la circostanza indicata nel comma 2 quale presupposto per accedere al rito del c.d. “patteggiamento”: «Fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti,
anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento
previste dalle norme tributarie.».
Le cause di non punibilità, poi, sono previste dall’art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000, sulla base di presupposti diversi per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, da un lato, e per i delitti di cui agli artt. 4 e 5, dall’altro. Precisamente, a norma dell’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, «i reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.». A norma dell’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000,
invece, «i reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.».
2.3. Dalla combinazione di tutte le disposizioni indicate, risulta innanzitutto evidente che problemi di ammissibilità del c.d. “patteggiamento”, per i delitti di cui agli artt. 4, 5, 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non si pongono quando il pagamento del debito tributario dà luogo ad una causa di non punibilità a norma dell’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000, perché in tal caso il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione, in linea con quanto disposto dall’art. 444, comma 2, cod. proc. pen.
Ciò premesso, operando il raffronto tra gli elementi costituivi della circostanza di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, la cui verificazione è presupposto per l’accesso al rito del c.d. “patteggiamento”, e gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 1, del medesimo d.lgs., per i reati previsti dagli artt. 10-bis, 10-ter e 10- quater, comma 1, emerge una totale sovrapposizione. Ne discende che, per i reati appena indicati, l’estinzione integrale dei debiti tributari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado dà luogo alla causa di non punibilità, in quanto prevista da una norma che è speciale rispetto a quella relativa alla circostanza attenuante ad effetto speciale: ed infatti, in presenza dei medesimi presupposti, mentre l’art. 13-bis, comma 1, prevede la diminuente per tutti i reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, l’art. 13, comma 1, si riferisce ad un sottoinsieme di fattispecie comprese in quella categoria, prefigurando una causa di non punibilità esclusivamente per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1.
Di conseguenza, per i reati appena indicati, l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione dell’apertura del dibattimento di primo grado non può mai costituire presupposto per l’accesso al rito del c.d. “patteggiamento” perché, se si verifica, dà luogo, in ogni caso, alla causa di non punibilità.
In presenza delle indicate fattispecie, quindi, l’alternativa è o ritenere preclusa in radice la definibilità del procedimento penale a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., o, al contrario, ammetterla, ma senza richiedere il preventivo pagamento del debito tributario. La prima soluzione, però, sembra poco plausibile perché l’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, nei suoi enunciati testuali, non fissa, in linea generale e programmatica, un divieto generale di accesso al c.d. //i  “patteggiamento” per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1.
Diversamente deve ritenersi con riferimento ai reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000.
Innanzitutto, per questi delitti, è giuridicamente ed empiricamente ipotizzabile ritenere che l’accesso al rito di cui all’art. 444 cod. proc. pen. sia subordinato al verificarsi della circostanza di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000. Invero, la causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 2, d.lgs. cit. si  verifica esclusivamente se l’integrale pagamento del debito è effettuato:
a) in collegamento con il ravvedimento operoso o la presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo;
b) «sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali».
È quindi evidente che, per i reati in questione, il pagamento del debito tributario effettuato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ma dopo della formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, non potrà integrare la causa di non punibilità, ma solo la circostanza attenuante ad effetto speciale.
Inoltre, la ricostruzione secondo cui l’adempimento del debito tributario è condizione necessaria per accedere al rito di cui all’art. 444 cod. proc. pen. appare coerente con il dato normativo. Ed infatti, la deroga alla necessità dell’avvenuto integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado quale presupposto per la definizione del processo nelle forme del c.d. “patteggiamento” è prevista dall’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. cit. non in relazione a tipologie di reato puntualmente richiamate, ma avendo riguardo alla integrazione di una delle «ipotesi» previste dall’art. 13, e, quindi, sembra far riferimento all’avvenuta integrazione di una causa di non punibilità.Ancora, l’esito ermeneutico di soluzioni differenziate per le fattispecie di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, rispetto alle fattispecie di cui agli artt. 4 e 5, peraltro, non solo è logicamente e sistematicamente ammissibile e risulta coerente con il dato normativo, ma appare giustificabile anche alla luce della diversa gravità delle fattispecie. Invero, mentre i delitti di cui agli artt. 10- bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, sono tutti puniti con la pena della reclusione da sei mesi a due anni, i delitti di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000 sono puniti, il primo, con la reclusione da uno a tre anni, e, il secondo, con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
2.4. Ritenuto che, per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000, il rito speciale previsto dall’art. 444 e ss. cod. proc. pen. è ammissibile solo quando vi  sia stato l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, pur se dopo la formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, deve affermars che la sentenza impugnata ha illegalmente determinato la pena, applicando la
diminuente del rito in assenza dei presupposti necessari.
Invero, come risulta immediatamente già dall’intestazione della sentenza impugnata, l’imputato non ha ripianato nemmeno parzialmente il debito tributario.
3. Fondate, poi, sono anche le censure formulate nel secondo motivo, che deducono l’illegalità della pena per la mancata applicazione della confisca obbligatoria.
Ed infatti, a norma dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, «nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo cheappartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.».
4. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, con restituzione degli atti al Tribunale di Livorno.

 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Livorno.
Così deciso il 02/10/2019